Il 7 marzo 1337 il Comune di Arezzo è per la prima volta sottoposto al dominio fiorentino. Pier Saccone Tarlati, signore di Arezzo (1328-1337), è isolato politicamente; insieme con i consorti, decide di rinunciare a ogni potere sopra la città e ne consegna la signoria a Firenze per i successivi dieci anni.
Tre sono i motivi di questo isolamento politico.
Nel febbraio 1337, rivolgendosi ai fiorentini, Piero sostiene che “il vescovo d’Areço sia casgione de tutta la descordia la quale è in Areço e nel contado ed in tutta la provincia[1]”; il vescovo in questione è Boso Ubertini, eletto al soglio episcopale aretino il 5 dicembre 1326 da Giovanni XXII (1316-1334) in sostituzione di Guido Tarlati, ribelle all’autorità pontificia. I Tarlati mantengono però il controllo di proprietà e castelli vescovili, negandoli a Boso; in tal modo rafforzano il patrimonio territoriale del proprio casato, aggiungendovi le risorse economiche e strategiche di quel Patrimonio di S. Donato che dimostrava l’antica preminenza del vescovo nel territorio e anzi sostituiscono il presule nel suo tradizionale ruolo di defensor civitatis attraverso la creazione dell’ufficio laico del “Defensorato”. Gli Ubertini di certo non restano a guardare e, “in stretto collegamento con la curia di Roma, accrescono continuamente e con successo le inimicizie nei confronti dei Tarlati ricevendo il favore di Perugia”[2]. Il comune umbro è infatti minacciato nei propri interessi dall’espansione territoriale di Piero verso oriente, culminata con la sottomissione della Massa Trabaria nel 1334. Perugia, in risposta, pianifica la propria politica di espansione a pregiudizio del contado aretino e allestisce una potente coalizione di forze ostili a Piero e ai consorti dove, oltre ai comuni di Città di Castello e Sansepolcro che, in quanto comunità soggette ai Tarlati e gravate da una fiscalità quasi interamente diretta a sostenere il loro sforzo militare, in una situazione incerta, preferiscono appoggiare i ‘nemici del padrone’ per liberarsi dal giogo che questo gli impone, figurano ovviamente gli Ubertini, i nobili della Faggiola, Ranieri Casali signore di Cortona, i conti di Montedoglio, i Boccognani di Sansepolcro e i Marchesi del Monte S. Maria.
Piero, nel tentativo di difendersi, chiede sostegno a Mastino II della Scala (1308-1355) signore di Lucca. Lo Scaligero invia al Tarlati alcuni rinforzi che però non lo raggiungono perché impediti da Firenze che, rimasta a lungo spettatrice interessata al declino del potere cittadino di Piero perché desiderosa di assoggettare Arezzo, nel novembre 1335 interviene in Val d’Ambra e unisce le proprie forze a quelle della coalizione anti-tarlatesca eretta da Perugia.
Il casato di Pietramala avverte la sconfitta e decide di redimere il conflitto con Perugia, Firenze e i loro alleati attraverso una calcolata operazione politica con cui mantenere una posizione di forza nel territorio: condizione indispensabile per provare, nel tempo, a riconquistare il potere in Arezzo. Nel gennaio 1337 Piero prova quindi a discutere la pace con Perugia che però, secondo quanto scrive il cronista fiorentino Giovanni Villani, vuole “si larghi patti e vantaggi” da indurlo a rivolgersi a Firenze, dove pure “aveanvi più singulari amici e parenti”.
Il primo contatto formale tra Piero e la Città del Giglio è del 27 gennaio[3] mentre l’accordo è reso ufficiale attraverso un documento redatto nel Palazzo del Popolo di Firenze il 7 marzo[4]; il giorno dopo gli aretini ricevono in città i nuovi dominatori accompagnati da Piero che consegna loro il vessillo del popolo e le chiavi delle porte, simboli del potere[5]. Firenze promuove la redazione di un nuovo statuto cittadino, cioè la forma che assume la codificazione della legge municipale, con cui propaga in Arezzo il proprio modello istituzionale che assegna la sovranità ai ceti urbani più elevati quali i giudici, i notai e i mercanti; l’ufficio di vertice del nuovo regime di Popolo è rappresentato dai Priori, eletti in numero di due per ciascuna delle quattro porte della città. In questo modo Firenze pregiudica la supremazia ghibellina a lungo mantenuta in Arezzo da una nobiltà feudale che, in virtù del proprio peso politico all’interno del Comune, era sempre riuscita a contenere le aspirazioni guelfe di un governo esteso a più ampie sfere dell’ambiente urbano. La nuova dominatrice invia alcuni dei suoi più autorevoli cittadini di parte guelfa a ricoprire i due principali uffici comunali e cioè quello del Podestà, vertice del sistema amministrativo, e quello del Capitano del Popolo che, forte di un contingente armato composto di più di 200 unità, deve garantire la custodia fiorentina della città; il controllo su Arezzo è completato con la creazione di un organo collegiale, quello dei “Dodici buoni uomini”, che ha facoltà di deliberare “sopra i fatti di Arezzo”. Infine, Firenze trasforma il settore nord-orientale di Arezzo in un maestoso complesso fortificato con cui poter debitamente sorvegliare la città.
Con l’accordo del 7 marzo, Piero e i consorti riescono a ottenere molto denaro e numerosi privilegi.
Il complessivo guadagno economico dei Tarlati è di 61.000 fiorini d’oro: 25.000 pagati a Piero per la rinuncia e la decennale cessione della signoria su Arezzo, 18.000 consegnati ai Tarlati per pagare gli stipendi di un contingente di scorta armato che pure ottengono con il presente accordo, 14.000 ricevuti da Piero e da suo fratello Tarlatino quale risarcimento per l’esproprio dei loro possedimenti e diritti in Val d’Ambra (adesso in mano ai fiorentini) e quindi 4.000 come indennizzo di guerra.
I privilegi consistono invece nell’impossibilità, per i Tarlati, di essere esiliati da Arezzo, l’esenzione da gabelle e dazi comunali, la possibilità di continuare a rivestire uffici pubblici in città, l’assegnazione del già citato contingente di scorta armato, l’ottenimento della cittadinanza fiorentina e lo status di popolari, il controllo decennale di Castiglion Fiorentino, l’altrettanto decennale esilio delle nobili casate nemiche (Ubertini in primis) dieci miglia oltre il contado di Arezzo e la promessa della consegna del vescovado aretino a Bartolomeo Tarlati.
Diversamente che con Firenze, con Perugia i Tarlati falliscono nel tentativo di ottenere particolari privilegi e anzi, quale conseguenza dell’accordo di pace firmato con il comune umbro il 29 aprile 1337[6], vedono frantumarsi il proprio potere in quei territori che negli anni precedenti avevano costituito il loro naturale perimetro di espansione. Piero e consorti sono infatti costretti a rinunciare a ogni loro diritto e giurisdizione nel contado di Città di Castello, di Sansepolcro e di Cortona, devono vendere a ciascuna di queste comunità i fortilizi che lì possiedono e, per i successivi venticinque anni, sono esclusi da ogni forma di partecipazione politica nei loro territori.
In sostanza, l’unico che paga veramente le decisioni stabilite attraverso l’accordo del 7 marzo tra Pier Saccone e Firenze è il Comune di Arezzo il cui contado, seppur pacificato, subisce una considerevole restrizione geografica a vantaggio delle potenze vicine (Perugia ottiene Anghiari, Foiano, Lucignano e Monte S. Savino, mentre Firenze l’intero viscontado di Val d’Ambra), al cospetto delle quali la potenza della città appare significativamente ridotta.
[1]Pasqui II, doc. n° 770 del 4 febbraio 1337.
[2]La prima acquisizione fiorentina del dominio sul Comune di Arezzo (1337), Tesi di Laurea di Riccardo Neri, Alma mater studiorum – Università di Bologna, Scuola di Lettere e Beni culturali, Corso di Laurea in Storia, anno accademico 2016-2017.
[3]Pasqui II, doc. n° 769.
[4]Pasqui II, doc. n° 775.
[5]Annales Arretinorum Maiores.
[6]Pasqui II, doc. n° 777.
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