Il personaggio
Figlio di Simone Donati, cavaliere e capo della Parte guelfa fiorentina, e di Contessa (Tessa) di cui non si conosce il casato, Corso (1250ca-1308) è membro di un casato magnatizio di antica tradizione nobiliare e molto potente a Firenze per prestigio sociale e aderenze politiche.
Corso riceve l’investitura cavalleresca ancora molto giovane e mostra fin da principio un carattere impulsivo e spericolato, prepotente e deciso; egli ha il temperamento del leader più che dell’accorto uomo politico, è solidale con gli amici e spietato con i nemici.
A tal proposito basti ricordare le parole con cui ce lo descrive il cronista fiorentino Dino Compagni: “Un cavaliere della somiglianza di Catilina romano, ma più crudele di lui, gentile di sangue, bello di corpo, piacevole parlatore, adorno di belli costumi, sottile d’ingegno, con l’animo sempre intento a malfare, col quale molti masnadieri si radunavano e gran seguito aveva […]. Costui fu messer Corso Donati, che per sua superbia fu chiamato il Barone; che quando passava per la terra molti gridavano: “Viva il Barone”, e pareva la sua terra”.
Come per ogni altro nobile provvisto di cintura cavalleresca, la formazione politica di Corso consiste nel rivestire uffici pubblici di vertice nelle città amiche di Firenze: nel 1283 è podestà a Bologna, dove torna nel 1285 in veste di Capitano del Popolo, nel 1287 è podestà a Padova, nel 1288 di nuovo a Bologna.
Ogni volta che Corso torna a Firenze si rende protagonista nei consigli cittadini dove sostiene posizioni di intransigente guelfismo, come quella, emblematica e al tempo clamorosa, di impadronirsi con le armi dei dominii dell’Impero confinanti con lo Stato fiorentino.
Il suo atteggiamento guerrafondaio disturba il “pacifismo” delle ricche famiglie di mercanti che vedono minacciati i loro commerci da uno stato di guerra che favorisce, di contro, quegli esponenti di antiche casate nobiliari a cui era per tradizione assegnato il comando militare e che sono, nei fatti, i più convinti sostenitori di Corso.
Nel 1289, al momento della battaglia di Campaldino, Corso è podestà di Pistoia; è proprio in virtù del ruolo avuto nello scontro che il “Barone” trasforma il forte consenso che lo accompagna nella definitiva celebrità.
Che egli dovesse distinguersi nella piana di Certomondo si doveva già capire quando, nel consiglio dei capitani di guerra tenutosi nel battistero di San Giovanni, suggerisce, insieme con gli esuli aretini capeggiati da Rinaldo dei Bostoli, di cambiare il tragitto di marcia dell’esercito guelfo e di muovere verso il Casentino piuttosto che il Valdarno.
A Corso è assegnato il comando della riserva (circa 150 cavalieri pistoiesi e assoldati lucchesi) e dato ordine di attaccare il nemico solo in caso d’emergenza; egli è quindi obbligato a restare in disparte nella prima fase della battaglia ma, da questa posizione di distacco, può osservare meglio le manovre dei due eserciti. A seguito della carica ghibellina, Corso interpreta l’arretramento del centro fiorentino come il principio della catastrofe e, ascoltando la propria indole guerriera, ordina la carica, rovinando sul fianco destro degli aretini; con questa azione risolutiva divide i cavalieri dai fanti e taglia in due tronchi l’esercito nemico propiziando la vittoria guelfa.
Le cronache sostengono che, prima di attaccare, Corso sfidasse i concittadini a venirlo a cercare a Pistoia, dove appunto esercitava l’ufficio di podestà, per la condanna, perché, conoscendo i fiorentini il suo carattere, gli era stato minacciato il taglio della testa in caso di disobbedienza agli ordini: “Se noi perdiamo, io voglio morire nella battaglia co’ miei cittadini; e se noi vinciamo, chi vuole venga a Pistoia per la condannagione”.
L’ascesa
Proprio in forza dell’enorme popolarità raggiunta da Corso, il governo popolano desiste da ogni attacco diretto contro di lui e il Comune dimostra di considerare indispensabile la presenza in patria del valoroso cavaliere, come quando nel 1291 le autorità fiorentine gli negano il nulla-osta per assumere la carica di Capitano del Popolo a Bologna.
Anche quando nel 1293 Giano della Bella fa approvare gli “Ordinamenti di Giustizia”, cioè una legislazione straordinaria di dura repressione magnatizia, Corso riesce a conservare quasi intatto il suo prestigio e la potenza del proprio casato perché lascia Firenze e si reca prima a Bologna in veste di Capitano del popolo e poi a Parma in quella di podestà, aspettando il momento giusto per ritornare in città.
Di nuovo a Firenze, Corso mantiene un atteggiamento arrogante e violento ma è comunque capace di conquistare la plebe in virtù della sua grandigia cavalleresca; è questo il periodo che lo vede contrapporsi a Vieri de’ Cerchi per la leadership cittadina. Corso, cavaliere di antica schiatta, è espressione di un antico ordine sociale retto da valori tipicamente feudali ed è sostenuto dall’élite aristocratica mentre Vieri, membro di una ricca famiglia di banchieri e mercanti che ha raggiunto i vertici della politica cittadina solo da poche generazioni, riceve il sostegno del popolo grasso composto di ricchi banchieri, mercanti e uomini di legge.
L’inimicizia tra le due famiglie trova motivo anche in due controversi matrimoni; il primo è quello tra Corso e una Cerchi che però muore subito dopo in circostanze oscure, secondo molti fatta avvelenare proprio dal marito, il secondo è quello che il “Barone” contrae con Tessa Ubertini, di famiglia notoriamente ghibellina ma voluta in sposa per la sua ricchissima dote, al quale si oppongono i Cerchi, anch’essi imparentati con Tessa, che si rivolgono direttamente al pontefice Bonifacio VIII che però non interviene.
Corso diventa ben presto il capo dei guelfi Neri, cioè quelli più intransigenti, e Vieri quello dei guelfi Bianchi, più moderati e dei quali fanno parte pure Dante Alighieri e Guido Cavalcanti (che nel 1296 cerca di trafiggere Corso con un dardo per vendicarsi di un’imboscata subita in Francia e a suo giudizio ordinata proprio dal “Barone”).
In questo periodo Corso spadroneggia a Firenze ma, a causa del suo strapotere e della palese impunità non più tollerabili, nel 1299 è bandito dalla città e si rifugia a Roma dal pontefice Bonifacio VIII che lo nomina prima podestà di Orvieto e poi rettore della provincia pontificia della Massa Trabaria.
Nel 1300 Corso è pure condannato a morte in contumacia, gli vengono distrutte le abitazioni e gli sono confiscati i terreni perché, anche se è lontano da Firenze, egli è considerato l’occulto regista dei violenti scontri cittadini tra guelfi Bianchi e guelfi Neri.
Proprio quando può gettare le basi per il potere dei Bianchi a Firenze con in testa la casata de’ Cerchi, Vieri, l’antagonista principale di Corso, mantiene un atteggiamento timido e insicuro e non riesce a trovare il modo di imporsi in città.
Corso rientra quindi a Firenze nell’ottobre 1301 al seguito di Carlo di Valois, il “paciere” inviato da Bonifacio VIII a redimere i contrasti tra Bianchi e Neri che però, nei fatti, favorisce apertamente i secondi; soltanto pochi giorni dopo, con l’assenso del francese, il “Barone” diventa il padrone incontrastato di Firenze anche se il quadro istituzionale comunale non subisce formali modifiche e Vieri fugge ad Arezzo nell’aprile del 1302.
Poco dopo il “Barone” decide di sposarsi di nuovo con la figlia di Uguccione della Faggiola, il più potente capo ghibellino in Toscana e notoriamente inviso a Firenze, e per questo perde l’appoggio di molti suoi seguaci e aumenta l’ostilità dei nemici, sempre più numerosi.
Il declino
L’egemonia di Corso resiste fino al 1308 quando, recatosi a Treviso per ricoprire la carica di podestà, lascia campo libero agli avversari che, abbandonato ogni timore, tramano contro di lui e preparano l’attacco decisivo. Il 6 ottobre del 1308 le compagnie del popolo, i magnati nemici e numerosi mercenari catalani assediano le sue case; il “Barone”, non appena gli viene riferito che i rinforzi richiesti a Uguccione sono stati intercettati dagli armati del Comune poco fuori le mura di Firenze, tenta la fuga ma è catturato e ucciso dai nemici.
La grandezza e l’importanza di Corso Donati sono state universalmente riconosciute, ma è Nicolò Machiavelli che riesce a coglierne il principale difetto politico, cioè la scarsa duttilità: il “Barone”, nei suoi continui progetti di predominio sullo Stato fiorentino, si circonda di troppa ostilità e resta bloccato da un complesso sistema di contrapposti ed equilibrati poteri che nella Firenze del suo tempo rendeva quasi impossibile a un singolo di conquistare la completa e stabile supremazia.
Per approfondire:
“Corso Donati” in Dizionario Biografico degli Italiani Treccani, voce a cura di S. Raveggi (1992)
“Corso Donati” in Enciclopedia Dantesca Treccani, voce a cura di E. Sestan (1970)
Canaccini, Gli eroi di Campaldino, Firenze: Scramasax, 2002, pp. 14-24
Sito ufficiale di Mario Venturi: www.parvimilites.it
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