All’epoca della guerra che le vede opporsi (1287-1289), le città di Arezzo e Firenze sono tra le più importanti e potenti di Toscana; entrambe in forte espansione territoriale ed economica, la prima è con Pisa il “nido” dei ghibellini del centro-Italia, la seconda è la città guelfa per eccellenza, alleata con il pontefice e Carlo d’Angiò, da poco giunto in Italia e diventato signore del meridione.
Questo giustifica l’attenzione rivolta dalle cronache di quel tempo alle manovre militari, ai personaggi coinvolti e alle conseguenze geo-politiche del conflitto ma, dal momento che “la storia è dei vincitori”, e questo valeva allora anche più di quanto valga oggi, le due testimonianze storiografiche più autorevoli (in riferimento agli “standard” di quell’epoca) sono di parte fiorentina e sono frutto dell’esperienza personale e delle ricerche degli storici Dino Compagni (1246/47-1324) e Giovanni Villani (1280-1348).
Dino Compagni e la Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi
Dino Compagni risulta iscritto all’Arte della seta nel sestiere di Por Santa Maria già nel 1269.
La formazione culturale di Dino è però superiore a quella di un comune mercante, tant’è che viene eletto per ben sei volte fra i quattro consoli della propria Arte tra il 1282 e il 1299, compreso il 1289, l’anno di Campaldino, dimostrando di godere di forte considerazione sociale.
Nel 1282 è tra coloro che promuovono a Firenze la costituzione della magistratura del Priorato.
Dino è guelfo di parte bianca, quindi moderato; secondo la testimonianza autobiografica che ci offre la Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi, egli appare come personaggio dall’indole più diplomatica che aggressiva e spesso biasima il comportamento di coloro che, all’opposto, agiscono secondo prepotenza e impulsività, in primis l’odiato Corso Donati, paragonato al romano Catilina.
La Cronica racconta l’origine del contrasto tra guelfi e ghibellini a Firenze nel 1215 e quindi affronta la narrazione lineare degli eventi che interessano la città tra l’arrivo del cardinal Latino nel 1280 e la morte dell’imperatore Enrico VII di Lussemburgo nel 1313.
Il dato autobiografico centrale, che rimanda cioè all’esposizione dei fatti inerenti la guerra tra Firenze e Arezzo culminata con lo scontro di Campaldino, è quello che vede Dino eletto tra i Priori fiorentini nel periodo 15 aprile – 15 giugno 1289.
Egli è pienamente inserito al centro delle trame politiche cittadine e gode di un punto di osservazione privilegiato sugli eventi, in virtù del quale descrive in modo sintetico ma preciso la sequenza delle vicende toscane e il comportamento dei protagonisti coinvolti a partire dal favore che Firenze concede agli esuli aretini, cacciati dalla propria città nel 1287, per proseguire poi con i preparativi di guerra di entrambe le parti, le trattative segrete tra Guglielmino degli Ubertini e Firenze, il tragitto dell’oste guelfa, lo scontro vero e proprio e, infine, le cavalcate e il guasto dei fiorentini nel contado aretino.
In apertura dell’opera è lo stesso Dino a dirci il criterio che ha usato per distinguere il vero dal falso: “Quando io incominciai, proposi di scrivere il vero delle cose certe che io vidi e udii […], e quelle che chiaramente non vidi proposi di scrivere secondo udienza; e perché molti secondo le loro volontà corrotte trascorrono nel dire, e corrompono il vero, proposi di scrivere secondo la maggior fama [delle cose udite]”.
Nonostante l’aspirazione quanto più oggettiva possibile del racconto, la necessità morale che guida la composizione dell’opera è immediatamente avvertibile e condiziona non poco i giudizi dell’autore nella presentazione non tanto dei fatti che accadono quanto dei personaggi che li vivono e della loro condotta.
Inoltre lo stile essenziale (a volte quasi didascalico) di Dino risulta certamente scorrevole ma, in alcuni casi, abbassa il livello storiografico dell’opera, là dove la descrizione di avvenimenti d’importanza non secondaria, utili a comprendere meglio quelli più noti, viene parzialmente o del tutto omessa.
Giovanni Villani e la Nuova Cronica
A queste carenze “sopperisce” la penna di Giovanni Villani che, nella stesura della Nuova Cronica, riesce ad essere più completo del “collega”, anche se all’epoca di Campaldino è un bambino di appena nove anni.
Mercante come Dino, Giovanni lavora prima per la compagnia dei Peruzzi (fino al 1308) e poi per quella dei Buonaccorsi (fino al 1322); l’impegno politico accompagna la professione e nel bimestre dicembre-febbraio 1316-1317 è per la prima volta eletto Priore.
Giovanni partecipa in prima persona alla vita politica comunale specialmente nel decennio 1320-1330; nel bimestre dicembre-febbraio 1321-1322 è di nuovo eletto Priore, così come nel 1328, e può dunque accedere liberamente a tutti quei documenti ufficiali utili per la stesura (iniziata già nel 1308) quanto più attendibile della Nuova Cronica.
L’opera si compone di 12 libri; i primi 6 spaziano dalle origini bibliche della città di Firenze alla venuta di Carlo d’Angiò in Italia nel 1265, gli altri 6 raccontano le vicende fiorentine fino al 1348, quando la terribile peste nera si diffonde in Europa e uccide almeno un terzo della popolazione, compreso Giovanni.
Il periodo nel quale si colloca l’esperienza politica di Giovanni è quello del vescovo-signore Guido Tarlati, di suo fratello Piersaccone e degli eventi che portano al primo dominio fiorentino su Arezzo nel 1337 (tutti fatti storici dettagliatamente descritti nella Nuova Cronica) ma, nonostante non avesse avuto esperienza diretta della guerra tra Arezzo e Firenze, egli, come dicevamo, è riuscito a essere più preciso e puntuale di Compagni, fornendoci una visione più ampia degli avvenimenti.
Giovanni non dimentica, infatti, di raccontare la prima cavalcata dei fiorentini e dei senesi contro Arezzo e la sconfitta subita nella via del ritorno dai secondi presso Pieve al Toppo (giugno 1288), della cavalcata dei fiorentini verso Laterina (settembre 1288), dove per la prima volta nella storia essi usano le insegne reali francesi, donate da Carlo d’Angiò a Berto Frescobaldi (“e in quella oste e cavalcata si diede di prima la ‘nsegna reale dell’arme del re Carlo, e ebbela messer Berto Frescobaldi, e poi sempre l’usarono i Fiorentini in loro oste per la mastra insegna”), e delle cavalcate aretine fino a Pontassieve (ottobre 1288) e a San Donato in Collina (marzo 1289) dove “i fumi delle case e delle arsioni si vedevano dalla città di Firenze”.
Infine, dopo aver descritto i preparativi degli eserciti e lo svolgersi della battaglia di Campaldino, quando “si schierarono e si affrontarono le due osti più ordinatamente per una parte e per l’altra, che mai s’affrontasse battaglia in Italia”, Giovanni “incornicia” con lo slancio tragico del grande scrittore un’immagine storica tanto naturale quanto toccante, e cioè il frenetico e vicendevole battere alle porte delle abitazioni fiorentine al grido “levate suso, che gli Aretini son sconfitti!”, quando, all’ora di sera, giunge in città la notizia della vittoria.
Ser Bartolomeo di ser Gorello di Ranieri d’Arezzo e la Cronica dei fatti d’Arezzo in terza rima
Nel caso di Arezzo, non abbiamo per questo periodo alcuna opera prettamente storiografica come quelle di Compagni e Villani; infatti, la testimonianza più autorevole, con cui è possibile, cioè, mettere in luce il “sentimento” aretino in relazione alla guerra con Firenze e, soprattutto, alla tragica sconfitta subita a Campaldino, è un poema allegorico in terzine intitolato Cronica dei fatti d’Arezzo in terza rima, il cui autore è l’aretino ser Bartolomeo di ser Gorello (1327ca – 1393), nato quasi quarant’anni dopo il conflitto.
Egli svolge la professione di notaio e ricopre pure alcuni non meglio definiti incarichi pubblici in rappresentanza della fazione ghibellina; anche a causa del suo orientamento politico, Bartolomeo è costretto a lasciare Arezzo nei travagliati anni ’80 del Trecento, quando cioè la città vive il periodo più nero della propria storia comunale che culmina con la definitiva perdita dell’indipendenza in favore di Firenze.
La Cronica è riconducibile alla forma del lamento; l’autore affida ad essa le preoccupazioni comuni di quei ceti dirigenti cittadini dei centri di tradizione comunale che in quest’epoca assistono al tramonto della loro indipendenza politica e lo fa sotto forma allegorica, instaurando cioè un immaginario dialogo tra Arezzo, che racconta la propria storia millenaria senza alcuna menzogna, e lui stesso, che interviene con domande e commenti.
L’opera, il cui racconto delle vicende interne alla città di Arezzo è tutto sommato dettagliato, è mutila perché il canto XVIII è incompleto, mentre dei canti XIX e XX restano solo alcuni frammenti; l’argomento della guerra tra Arezzo e Firenze e dello scontro di Campaldino, dove “San Bernabò vittoriose mani / fece a Fiorenza, sì che riverire / ancor si fa” (canto III, vv. 53-55) è presentato dall’autore nel nel canto III.
Per Bartolomeo la figura centrale è e resterà sempre il vescovo-signore Guglielmino degli Ubertini, elogiato con questi versi semplici carichi di forte valore emotivo: “e ‘l grande ardire del buon Guglielmino, / che per francheza s’era lì condotto / col popul mio contra al Fiorentino, / dov’egli anchora accordò lo schotto, / volendo prima con virtù perire, / ch’ei
suoi lassar e venirsene a trotto / perché onor non s’acquista per fugire” (canto III, vv. 46-52).
Per approfondire:
- Dino Compagni, Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi (edizioni varie)
- “Dino Compagni” in Dizionario di Storia Treccani online (2010)
- “Dino Compagni” in Dizionario Biografico degli italiani Treccani, voce a cura di G. Arnaldi (1982)
- Giovanni Villani, Nuova Cronica (edizioni varie)
- “Giovanni Villani” in Enciclopedia Dantesca, voce a cura di G. Aquilecchia (1970)
- “Giovanni Villani” in Dizionario di Storia Treccani online (2011)
- “Bartolomeo di Gorello di Ranieri” in Dizionario Biografico degli italiani Treccani, voce a cura di M. Zabbia (2018)
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